Valutare come la società in cui viviamo sia scarsamente capace di provvedere a se stessa, sia sul lato della soddisfazione dei bisogni primari, sia nel generare quello stato di benessere legato alla qualità della vita, è compito di questa analisi.
Per inquadrare la situazione attuale bisogna prima fare un passo indietro e vedere il funzionamento umano, dal punto di vista psicologico, di come può essere viziato e condizionato da una comunicazione sociale inadeguata a anche volutamente manipolatoria.
Partiamo dall’ego.
L’ego, così come è stato definito da Jung, è il complesso centrale della consapevolezza. Quando sentiamo la parola complesso, siamo portati a pensare a qualcosa di patologico, mentre in realtà un complesso non è altro che un grappolo di energia affettivamente carico.
Jung considerava essenziale per la consapevolezza la formazione dell’ego. La consapevolezza implica la divisione tra soggetto e oggetto: per diventare conscio, devo conoscere ciò che non sono.
L’ego, in quanto complesso, è estremamente malleabile e “occupabile”. Quando viene occupato dai contenuti dell’inconscio, quando è sotto il controllo di altri complessi, diventa insicuro, manipolato ecc. Ciò che spesso chiamiamo ego è in realtà l’ego posseduto da uno o più complessi, per esempio il complesso dei soldi, del potere, del sesso, dell’aggressività. Tali complessi non sono la natura essenziale di un individuo, ma hanno il potere di usurpare o possedere l’ego.
Nel manipolare l’ego la società è divenuta esperta e attraverso la pubblicità televisiva suscita bisogni od orienta le persone a comportamenti prettamente egoici.
Con Ego si intende quindi quella parte di noi con la quale ci identifichiamo, costruita giorno per giorno nella relazione e il confronto con il mondo esterno. L’Ego possiamo intenderlo con quello che razionalmente intendiamo con la propria persona, la coscienza di quello che siamo.
Ego è ciò che noi sentiamo di essere, e viene costantemente messo a confronto con le altre persone, nel tentativo di rinforzarsi, di sentirsi all’altezza e attribuirsi la dignità di esistere. L’Ego, in quanto elemento soggettivo, implica separazione dagli altri, con confini che definiscono chi pensiamo di essere. Continuiamo così a catalogare le nostre esperienze, le persone che incontriamo, il loro e il nostro agire. Tutto viene valutato, giudicato, classificato, e concorre a farci sentire adeguati e dalla parte della ragione. L’Ego che si viene progressivamente a formare sulle base delle esperienze e del confronto, produce il senso di identità, ovvero la percezione soggettiva di chi siamo. Questa sensazione è però del tutto priva di stabilità, è provvisoria perché soggetta a tutto quello che la vita ci riserva e che non è sotto il controllo della persona. Salute, condizioni sociali ed economiche, affetti, bellezza, popolarità e tutto quello con cui ci identifichiamo non sono per sempre.
Le ragioni dei conflitti vanno ricercate nella necessità di mantenere e accrescere una valida immagine di sé stessi. Per poter soddisfare questo bisogno, l’Ego ci induce ad affermare le proprie posizioni e validare i propri comportamenti, affossando le idee e criticando i comportamenti degli altri. Questo accade anche quando gli altri sono persone per noi significative. Un meccanismo automatico ci induce a voler avere ragione e a ottenere il riconoscimento dell’altro. L’Ego si alimenta di questa vittoria effimera, si gonfia d’aria ma è soggetto a sgonfiarsi al primo inciampo.
Il bisogno di avere ragione per alimentare il proprio Ego produce conflitti sia nei rapporti di coppia che nei rapporti lavorativi e con le persone che incontriamo per strada. Costruire il senso di chi siamo e di quanto valiamo, nel costante confronto con le persone con cui abbiamo a che fare, determina un contesto sociale teso e sempre pronto a esplodere in conflitti. Se il valore di un individuo o di un gruppo è definito dal prevalere della propria posizione su quella di altri che vengono considerati nemici, i nostri contesti di vita saranno sempre più ostili e tossici all’umanità.
Il conflitto interiore che la società provoca in chi ha una maggiore sensibilità sfocia in patologie come l’hikikomori, nato come fenomeno alcuni decenni fa e ora diffuso come patologia in tutto il mondo occidentale.
Con il termine hikikomori si tende a descrivere una particolare sindrome che colpisce giovani e giovanissimi. “Stare in disparte, isolarsi” è il significato della parola hikikomori, termine giapponese che deriva dal verbo hiku (tirare indietro) e komoru (ritirarsi) (Moretti, 2010). Questo termine nasce per definire un fenomeno caratterizzato principalmente da ritiro sociale (social withdrawal) e una volontaria reclusione dal mondo esterno.
Nonostante non esista ancora un’ufficiale definizione dell’hikikomori a livello internazionale, il Ministero della Salute giapponese (MHLW) ne ha indicato alcune caratteristiche e sintomi specifici:
- Stile di vita centrato all’interno delle mura domestiche senza alcun accesso a contesti esterni.
- Nessun interesse verso attività esterne (come frequentare la scuola o avere un lavoro).
- Persistenza del ritiro sociale non inferiore ai sei mesi.
- Nessuna relazione esterna mantenuta con compagni o colleghi di lavoro.
Si esclude la diagnosi di hikikomori qualora sia presente un disturbo psichiatrico di maggiore gravità che possa sovrapporsi ai sintomi di ritiro sociale (schizofrenia, ritardo mentale, depressione maggiore ecc.) o altre cause che possano meglio spiegare il ritiro sociale.
Questa tipologia di sintomi, per quanto caratteristici, possono variare per intensità e frequenza.
La vita dei giovani hikikomori si svolge pertanto all’interno della loro casa o camera da letto. Le uniche interazioni con l’esterno avvengono attraverso internet, attraverso l’utilizzo di chat, social network e videogame. Gli hikikomori sono caratterizzati dall’evitamento di qualsiasi tipo di relazione e comunicazione diretta con altri individui.
Tra le principali cause dell’hikikomori sono state elencate (Moretti, 2010):
- Forte disagio all’interno del contesto familiare e sociale.
- Interdipendenza fra genitori e figli (lo stile genitoriale protettivo e amorevole incarnato nel concetto psicologico di “amae”(“dipendenza”, “riservatezza”, “dovere sociale”, “peccato” e “vergogna”), può favorire la dipendenza madre-bambino (Doi, 1973).
- Forti pressioni psicologiche da parte dei genitori esercitate sui figli.
- Severità del sistema educativo scolastico: il fenomeno dell’hikikomori si sviluppa solitamente dopo che il giovane ha trascorso un lungo periodo di assenza da scuola. L’assenteismo scolastico è spesso la prima manifestazione del comportamento di ritiro ed è spesso un precursore di hikikomori in piena regola, attribuito al 69% dei casi osservati (Saito, 1998).
- I sociologi aggiungono che fattori come la destabilizzazione economica del Giappone, che determina opportunità di lavoro irregolare, possano essere un importante contributo all’emergenza del fenomeno (Furlong, 2008).
- Essere stati vittime di forme gravi di “bullismo scolastico”, una violenza psicologica fatta di pressioni, derisione e forme di abuso ed esclusione dal gruppo, subita da chi non è in grado di competere all’interno del sistema scolastico, poiché carente di capacità e risorse comunicative che non lo mettono in grado di interagire in maniera sufficientemente adeguata e di inserirsi all’interno del gruppo.
- Timidezza, che nella lingua giapponese si traduce con lo stesso termine di vergogna, si esprime in una morbosa paura degli altri, una sorta di fobia che, soprattutto in Giappone, è una patologia quasi esclusiva del genere maschile riscontrabile non solo negli adolescenti, ma anche tra i giovani adulti.
La stragrande maggioranza dei casi hikikomori si presenta in uno stato di amae, stimata all’87-88% (Kobayashi et al., 2003; Takahata, 2003). Uno stile genitoriale caratterizzato dall’amae sembra essere strettamente correlato con l’hikikomori.
Gli Hikikomori hanno una visione molto negativa della società, non vogliono o non riescono a integrarsi. La società li schiaccia con aspettative per cui non si sentono all’altezza. Le conseguenze possono essere, oltre all’isolamento, la nascita di disturbi psicologici, le dipendenze da internet e dai videogiochi.
Spesso si sente parlare del sistema scolastico giapponese come uno dei migliori al mondo, dove disciplina e rigore sono ritenuti elementi imprescindibili per l’apprendimento. Tuttavia, un sistema così rigido nasconde spesso diverse inside e può avere degli esiti imprevisti, tra i quali vi è anche l’hikikomori.
Mentre in Italia la scuola pubblica è la norma e la scuola privata un lusso per pochi, in Giappone le cose si invertono. Gli istituti privati sono diventati gli unici che consentono di ottenere un diploma spendibile nel mondo del lavoro. Così, i genitori spesso fanno enormi sacrifici per mandare i propri figli nelle scuole più care e prestigiose.
“Il rango dell’università dove ci si laurea determina l’attività individuale, oltre che l’accesso a una certa condizione sociale e il successo che ci si può aspettare di ottenere nella vita. Le aziende più importanti nella scala gerarchica tendono sempre più a reclutare i laureati di cui hanno bisogno nelle università di livello più alto. Si tratta di un fenomeno che negli ultimi anni […] si è accentuato al punto che le imprese più importanti accettano soltanto le domande di impiego dei laureati provenienti dalle università di massimo livello.” (da “La Società Giapponese”, di C. Nakane, 1992).
Quando uno studente tenta e fallisce un esame di ammissione universitario diventa un ronin, ovvero uno studente che studia per un anno intero da solo per poi ritentare nuovamente il test. Ed è questo uno dei periodi nei quali si rischia maggiormente di diventare un hikikomori, in quanto l’isolamento sociale dello studente tende ad aggravarsi.
Durante il lockdown, nelle persone isolate da molto tempo, si è riscontrato un effetto paradossale con un conseguente miglioramento. Dopo tanto tempo infatti si sono sentite come tutti gli altri: tutti stavano a casa come loro con una conseguente diminuzione della pressione sociale. Chi, invece, non era ancora entrato in isolamento o ne stava uscendo ha subito una regressione ed un peggioramento della condizione. “La situazione dovuta alla pandemia si è riversata, naturalmente, anche sulle famiglie che stavano cercando di lavorare sul rapporto con il figlio – spiegano i portavoce dell’associazione Hikikomori Italia –. In alcuni casi, quelli in cui la famiglia non è ancora dotata di molti strumenti, l’impatto è stato devastante, con un vero e proprio balzo all’indietro. In altri casi, dove la famiglia era già più strutturata con varie strategie di lavoro, si è invece riusciti ‘quasi’ a giovarsi della dimensione più intima familiare dovuta alle restrizioni sociali”.
Approfondiamo meglio la situazione pandemica e le sue problematiche di gestione.
La SARS-CoV-2 (sindrome respiratoria acuta grave da coronavirus 2), la cui sequenza genica è risultata per il 70% identica a quella del SARS-CoV, diffusosi con l’epidemia di SARS del 2002-2004. Alla fine del mese di gennaio 2020 non erano ancora state ben determinate le caratteristiche del virus, sebbene fosse accertata la sua capacità di trasmettersi da persona a persona, e permanevano incertezze sulle esatte modalità di trasmissione e sulla patogenicità (la capacità di creare danno). La malattia associata fu riconosciuta con il nome di COVID-19.
Gli ammalati hanno accusato sintomi simili all’influenza come dermatiti, febbre, tosse secca, stanchezza, difficoltà di respiro. Nei casi più gravi, spesso riscontrati in soggetti già gravati da precedenti patologie, si sviluppa polmonite, insufficienza respiratoria acuta fino ad arrivare anche al decesso.
I pazienti presentano anche leucopenia e linfocitopenia. Dalla metà di gennaio 2020 fu disponibile un test per effettuare la diagnosi di infezione da SARS-CoV-2, e poco dopo è iniziata la ricerca e sperimentazione per cure e vaccini specifici. Le guarigioni sono spontanee e i trattamenti sono principalmente volti a gestire i sintomi e a supportare le funzioni vitali anche se sono stati testati alcuni farmaci antivirali già utilizzati per contrastare altre infezioni.
Una grande risposta, sia in Cina sia a livello globale, seguì un aumento dei casi a metà gennaio 2020, portando a restrizioni di viaggio, quarantene e coprifuoco, tra cui si possono annotare: la quarantena della nave da crociera Diamond Princess nelle acque giapponesi; il coprifuoco di oltre 780 milioni di persone in Cina e un coprifuoco volontario a Taegu, in Corea del Sud. L’epidemia fu dichiarata un’emergenza sanitaria pubblica di interesse internazionale (PHEIC) dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) il 30 gennaio.
Il lockdown forzato, se per tutti ha comportato enormi cambiamenti nella quotidianità, per gli hikikomori non ha cambiato nulla: si sono trovati di nuovo chiusi in casa, isolati, con il pc come unico contatto col mondo esterno, con forse però una solitudine più accentuata, almeno per coloro che avevano intrapreso un percorso di recupero per uscire da questa patologia e magari hanno dovuto interrompere le (rare) uscite settimanali per andare dal terapeuta, oppure hanno dovuto interrompere una frequenza scolastica che potevano aver ripristinato faticosamente grazie alla terapia: per molti, di fatto, la quarantena forzata ha interrotto il “rientro in società”. Il rischio è stato quello di vedere annullati i progressi fatti a livello di reinserimento sociale, ma anche che aumentassero alcuni problemi secondari, come per esempio fobie (contagio) e ansia sociale (rapporti con gli altri).
Un altro rischio potenziale, invece, riguarda chi una diagnosi di hikikomori ancora non ha (si ricorda che il fenomeno non riguarda solo la società giapponese, ma ha iniziato a preoccupare anche il nostro Paese nell’ultimo decennio, dove si parla di circa 100 mila casi in Italia e un rischio di aumento soprattutto tra le fasce d’età più basse), ma una serie di ragazzi considerati a “rischio”, il cui isolamento forzato potrebbe aver peggiorato alcuni tratti, sviluppando così forme di isolamento e ritiro sociale. Parliamo infatti di coloro che hanno una tendenza all’isolamento sociale ma riuscivano a mantenere alcune attività per rimanere in contatto con il mondo esterno (per esempio, molto semplicemente, la scuola), e che hanno subito conseguenze importanti, come per esempio grosse difficoltà a riprendere la vita normale. Il problema è legato appunto alla distanza che questi ragazzi vivono con amici, compagni, con la routine, ritrovandosi a passare molte ore chiusi nella propria stanza circondati da dispositivi elettronici, aumentando di fatto il rischio non solo di sentirsi isolati socialmente ma anche di comparsa di problemi quali insonnia, disturbi dell’umore, disturbi della concentrazione
La pandemia di Covid-19 ha letteralmente sconvolto il mondo che tutti eravamo soliti conoscere e vivere nel giro di pochissime settimane. Con quali effetti sulla sfera mentale e psicologica?
Da un lato i Governi dei paesi più colpiti hanno messo in campo una serie di azioni per mitigare il diffondersi dei contagi e attenuare la conseguente pressione sul sistema ospedaliero. Dall’altro lato la pandemia di Covid-19 ha provocato una serie di altri effetti a cascata che probabilmente saranno molto più difficili da attenuare e che espongono a conseguenze complesse, soprattutto le fasce più giovani e vulnerabili della popolazione. In particolare, a preoccupare numerosi esperti, nel periodo di campagna vaccinale, sono gli effetti psicologici che la pandemia ha ingenerato e ingenererà sugli individui, in particolare sui giovani e sulle persone psicologicamente più fragili o più esposte alla crisi economica derivante dall’emergenza sanitaria.
Nell’accentuare le difficoltà psicologiche la televisione ha avuto un ruolo determinante.
I continui aggiornamenti giornalieri a mo’ di bollettino di guerra e l’enfatizzazione della gravità della pandemia condivisa a reti unificate ogni giorno per due anni, ha sicuramente alimentato la psicosi del contagio e contribuito alla separazione ed esclusione sociale.
Secondo i risultati di uno studio realizzato dal Dipartimento di Scienze Biomediche di Humanitas University, la pandemia di Covid-19 ha impattato in maniera significativa sulla sfera psicologica ed emozionale degli individui. Questo studio preliminare, basato un campione di 2.400 persone, ha rilevato che nel periodo di pandemia il 21% degli intervistati ha notato un peggioramento nei rapporti con il partner e il 13% con i propri figli. Inoltre, il 50% del campione ha rivelato di aver subito un incremento della fatica percepita durante lo svolgimento di attività lavorative e il 70% degli studenti ha invece dichiarato un sensibile calo della concentrazione nello studio.
Non solo: nel corso dei mesi di emergenza sanitaria, il 14% degli intervistati ha dichiarato di aver iniziato ad assumere ansiolitici o sonniferi e il 10% ha fatto ricorso ad antidepressivi, mentre chi invece già faceva uso di questi farmaci prima della pandemia ha dovuto ricorrere a un incremento di dosaggio (19%). Inoltre, «il 21% ha riportato sintomi ansiosi clinicamente significativi e interferenti sulle proprie attività quotidiane, mentre il 10% ha avuto almeno un attacco di panico nel mese precedente la compilazione, senza mai averlo avuto prima nella vita. Il 20% ha riportato sintomi clinicamente significativi di disturbo post-traumatico da stress (PTSD) in relazione a esperienze legate alla pandemia, mentre il 28% ha lamentato sintomi ossessivo-compulsivi disturbanti e interferenti con il proprio funzionamento quotidiano», si legge nel report.
Numerose sono le ricerche condotte in questi mesi in campioni della popolazione generale per stimare la prevalenza e le caratteristiche di varie forme di malessere psichico, o di veri e propri disturbi mentali, quali depressione, ansia, disturbo post-traumatico da stress, ecc. In tempi eccezionalmente brevi sono già state pubblicate ben quattro meta-analisi che hanno preso in esame 85 studi condotti a livello internazionale (tra i quali anche alcuni nel nostro paese) (Krishnamoorthy et al., 2020; Salari et al., 2020; Xiong et al., 2020; Luo et al., 2020): questi studi, quasi tutti condotti attraverso la somministrazione di questionari online, sembrano dimostrare che la percentuale di coloro che riferivano, a partire da febbraio 2020, disparate forme di malessere psichico era molto elevata, raggiungendo e superando il 40% delle persone esaminate
Prognosi incerte, l’incombente grave carenza di risorse per la diagnosi e cura, e per la protezione dei soccorritori e degli operatori sanitari dalle infezioni, misure di salute pubblica sconosciute che violano le libertà personali, le ingenti e crescenti perdite finanziarie e l’avvicendarsi di provvedimenti da parte delle autorità sono tra i principali fattori di stress che senza dubbio contribuiranno ad un diffuso disagio emotivo e ad un aumento del rischio di malattie psichiatriche associate a Covid-19. Sintomi normali sono:
- insicurezza
- confusione
- isolamento emotivo
- paura dello stigma fra senso di colpa per essere causa di contagio e essere emarginati per la paura dell’appestato
Queste reazioni normali, fisiologiche, possono tradursi in una serie di reazioni emotive, come stress o condizioni psichiatriche, comportamenti malsani, come l’uso eccessivo di sostanze stupefacenti, e il mancato rispetto delle direttive di salute pubblica, come il confinamento in casa e le vaccinazioni, nelle persone che contraggono la malattia e nella popolazione in generale. Le condizioni mediche dovute a cause naturali, come le infezioni virali potenzialmente letali, non soddisfano gli attuali criteri di traumatologia richiesti per una diagnosi di disturbo da stress post-traumatico, ma ne possono derivare altre psicopatologie, come i disturbi depressivi e d’ansia.
Le misure di massa per il confinamento a casa, comprese le ordinanze sulla permanenza a casa, la quarantena e l’isolamento, possono determinare impatti emotivi, tra cui:
- stress
- depressione
- irritabilità
- insonnia
- paura
- confusione
- rabbia
- frustrazione
- noia
- stigma associato alla quarantena
Alcuni di questi persistono anche dopo che la quarantena è stata revocata.
La rottura della vita normale come conseguenza di lockdown imposti dai governi o l’obbligo di stare a casa ha avuto un impatto significativo sulla salute mentale delle persone. Lockdown e isolamento sociale hanno aumentato l’incremento della paura di violenza domestica, che include abuso fisico, emotivo e sessuale. Una revisione recente degli studi sugli effetti negativi della quarantena e misure simili sulla salute mentale hanno riscontrato che negli individui in condizione di isolamento fisico erano altamente presenti sintomi di depressione, disturbi dell’ansia e dell’umore, dello stress post-traumatico, dei disturbi del sonno, panico, stigmatizzazione, poca autostima, mancanza di autocontrollo.
Ha palesa quanto sin qui detto vi è la nascita di una nuova patologia: la Sindrome della Capanna.
La Sindrome della Capanna è una condizione di malessere psicologico che può manifestarsi quando una persona, in seguito a un periodo di lunga clausura e isolamento, si appresta a tornare a interagire con gli altri e il mondo.
Dovrebbe configurarsi come un disagio temporaneo, che tende a affievolirsi con il passare delle settimane.
Non esistono, ancora, riferimenti clinici o studi scientifici su questa sindrome tali da caratterizzarla come una vera e propria patologia.
Si è iniziato a parlarne di questa condizione psicologica, in termini divulgativi, a partire dalla fine del primo lockdown italiano nel maggio 2020.
A seguito dei due mesi di confinamento domestico, prescritto come forma di contenimento dei contagi da Covid 19, molte persone hanno iniziato a sviluppare una serie di difficoltà (es. ansia, irritabilità, frustrazione, ecc.) legate alla necessità e possibilità di ricominciare a uscire di casa e riprendere le normali attività di vita quotidiana. Il fenomeno è stato così diffuso da ricevere l’attenzione dei media e degli addetti ai lavori della salute mentale a livello nazionale e internazionale (Gaita, 2020).
Tuttavia, non si tratta di un fenomeno del tutto nuovo.
Tale condizione, ad esempio, si ritiene essere già nota in quei paesi nordici dell’Europa e dell’America dove le persone, a causa delle rigide condizioni climatiche invernali, sono costrette a restare a casa, isolati, per lunghi periodi.
In primavera, farebbero fatica a uscire da quello che è una specie di letargo, ad abbandonare le loro case-rifugio.
Molti hanno associato la Sindrome della Capanna a un’altra nota condizione psicologica: la Cabin fever, che letteralmente significa febbre da cabina, tradotta come “Sindrome del prigioniero”.
In realtà quest’ultima descriverebbe meglio lo stato d’animo di disagio e le difficoltà, che le persone hanno incontrato nei momenti in cui erano sottoposti alle misure di confinamento domestico e isolamento sociale all’inizio del periodo di lockdown (Estacio, Lumibao, Reyes, & Avila, 2020).
Tale sindrome descrive la difficoltà a doversi improvvisamente adattare all’idea di non poter uscire di casa, non poter vedere amici e parenti, non poter fare le cose che normalmente si facevano fino a quel momento.
Tutto ciò a causa di un nemico invisibile e pericoloso.
In entrambi i casi si fa riferimento a una sintomatologia aspecifica, di malessere, ansia, angoscia e demotivazione.
Tuttavia, la Sindrome della Capanna si configura come un disagio correlato al dover abbandonare le mura domestiche, all’interno delle quali si era trovato rifugio e protezione, per ricominciare a vivere come prima. Tra le cause ci sono la paura del mondo esterno, del contagio per sé e i propri cari e delle conseguenze della malattia sulla salute.
Inoltre, sembra essere presente una sorta di timore legato al pensiero di non riuscire ad adattarsi alle nuove regole di convivenza sociale e scoprire che all’esterno troppo è cambiato.
Temere di affrontare qualcosa che non si conosce molto bene, perché forse diverso da come ce lo ricordiamo, provoca un inevitabile senso di inadeguatezza.
Sicuramente tra le persone più a rischio ci sono coloro che hanno già sperimentato, o soffrono di una sintomatologia ansiosa, fobica o di altri problemi psichiatrici.
Ma non solo.
Chiunque, in seguito all’eccezionalità dell’evento, potrebbe ritrovarsi a sperimentare tale disagio, sia coloro che si sono sentiti a loro agio e protetti chiusi tra le mura domestiche, sia coloro che hanno vissuto con insofferenza il confinamento.
Le manifestazioni tipiche correlate alla Sindrome della Capanna sono:
- Ansia e senso di insicurezza
- Tristezza, angoscia, demotivazione
- Mancanza di energia e di entusiasmo
- Letargia, difficoltà nei movimenti e dolori muscolari
- Senso di solitudine, percezione di essere senza speranza
- Sentimento di non appartenenza alla società, senso di inadeguatezza
- Sfiducia nel prossimo
Un’altra insidia, derivante dall’utilizzo dei social: “il pericolo è che l’appagamento che deriva dalle chat o dai giochi online provochi il circolo vizioso della dipendenza da queste tecnologie. Negli adolescenti, infatti, le variazioni rapide della dopamina, un neurotrasmettitore che regola il meccanismo della ricompensa, sono responsabili dell’impulsività e della ricerca di appagamento immediato, per questo è tipico di questa fase del ciclo vitale cercare di ripetere all’infinito le esperienze che alzano i livelli di dopamina.
Il cervello dell’adolescente può sviluppare più facilmente dipendenze da sostanze o da comportamenti (videogiochi, chat, ecc.) che gli procurano piacere. Infatti se da un lato l’impulsività è legata alla scoperta dell’ignoto, alla ricerca, allo sviluppo della creatività e della produzione artistica, che spiegano il perché le scoperte alla base del progresso vengano il più delle volte effettuate dai giovani, dall’altra l’aumento dei livelli di dopamina, la sua rapida caduta e la conseguente ricerca da parte dei ragazzi di sentirsi su di morale, euforici, eccitati, possono spingerli a sperimentare comportamenti rischiosi che procurano piacere e che generano dipendenze.
Inoltre, per appesantire ulteriormente la situazione in questi due anni si sono diffuse decine di APP che consentono di acquistare qualsiasi cosa, cibo compreso, on-line. Da molti visto come un servizio da altri visto come un modo per isolare sempre più le persone e isolarle.
Tutta questa situazione ha le sue radici sulla perdita di spiritualità che la società vive.
W. Pauli, nel primo dopoguerra (‘50), aveva compreso che la questione più importante era “la mancanza dell’anima nella moderna concezione scientifica del mondo”. Lo “spirito della materia”, era stato negato per 300 anni ed ora stava lottando per la resurrezione. Era guidato da una visione del ritorno dell’anima nel mondo.
Recuperare una visione unitaria dell’essere umano in cui si possa ritrovare uniti corpo, mente e anima diviene fondamentale per il recupero del benessere e della salute reale e non come attualmente la medicina moderna ci porta a credere che la soppressione dei sintomi sia la strada per il benessere.
Riprendiamoci in mano la nostra vita recuperando il valore reale delle cose, ridando valore alle relazioni e recuperando la connessione con la nostra anima.
Questo è il primo è più importante conflitto interiore: la negazione dell’Anima.
I.B.I. – Istituto Biofisica Informazionale
Roberto Fabbroni
Bibliografia
Zijia Guo, A Review of Social and Cultural Causes of Hikikomori: Collectivism in Japan, Advances in Social Science, Education and Humanities Research, volume 638
Or Hareven, Tamar Kron, David Roe and Danny Koren, The scope and nature of prolonged social withdrawal in Israel: An initial quantitative and qualitative investigation, International Journal of Social Psychiatry 2022, Vol. 68(2) 301–308
Simone Amendola, Rita Cerutti, Fabio Presaghi, Valentina Spensieri, Chiara Lucidi, Elisa Silvestri, Vassilij Di Giorgio, Fabio Conti, Alessandro Martorelli, Gaia Izzi, Alan Teo, Hikikomori, problematic internet use and psychopathology: correlates in non-clinical and clinical samples of young adults in Italy, JOURNAL OF PSYCHOPATHOLOGY 2021;27:106-114 DOI: 10.36148/2284-0249-412
Jeff Gavin and Mark Brosnan, The Relationship Between Hikikomori Risk and Internet Use During COVID-19 Restrictions, CYBERPSYCHOLOGY, BEHAVIOR, AND SOCIAL NETWORKING Volume 25, Number 3, 2022 ª Mary Ann Liebert, Inc. DOI: 10.1089/cyber.2021.0171
Jolene Y. K. Yung, Victor Wong, Grace W. K. Ho and Alex Molassiotis, Understanding the experiences of hikikomori through the lens of the CHIME framework: connectedness, hope and optimism, identity, meaning in life, and empowerment; systematic review, Yung et al. BMC Psychol (2021) 9:104 https://doi.org/10.1186/s40359-021-00605-7